Da un lato, aziende e organizzazioni sanno di avere necessità di contenuti validi per comunicare,
dall’altro non sempre sono attrezzate per farlo.

Stiamo parlando di content marketing, ovvero di quell’insieme di azioni che prevedono la creazione di contenuti (informazioni) da condividere con il proprio target. I contenuti possono essere informativi, emozionali, divertenti, utili: l’obiettivo è quello di interessare il nostro utente e di spingerlo a compiere un’azione positiva nei nostri confronti, tipo iscriversi alla nostra newsletter o scaricare un pdf, ma anche – in estrema sintesi – acquistare il nostro prodotto o servizio.

Ricordiamo che (mai come in quest’epoca) ogni azienda o organizzazione ha a disposizione una nutrita serie di canali per comunicare che, in molti casi,possiede e gestisce direttamente: sito, blog, social media, newsletter, ecc. Questi “owned media” (canali di proprietà) necessitano però sia di una strategia di comunicazione ben delineata (obiettivi, tempi, metodi), sia – appunto – di contenuti all’altezza.

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I contenuti, per intenderci, possono essere: post per i social, testi per sito e blog, newsletter, ebook, white paper, webinar, immagini, infografiche, video. E qui sorge spontanea la domanda: chi – e come – gestisce la creazione e produzione di contenuti all’interno delle aziende?

In questo ci aiuta un’indagine dell’Università Cattolica di Milano che ha sondato un campione di PMI nazionali, che operano sia nell’industria che nei servizi, per capire le loro strategie di content marketing. Intanto, un primo dato è quello che su 4.500 aziende contattate ha risposto solo il 15% circa, in sostanza 600 aziende che hanno mostrato consapevolezza (oltre che disponibilità) nei confronti della questione.

Il risultato finale dell’indagine individua tre differenti approcci al content marketing. Il primo, corrispondente al 13% del campione, viene definito “approccio riduttivo”: queste aziende utilizzano poco o per nulla questa tecnica di marketing, che non viene percepita come utile e strategica allo sviluppo aziendale. Ci si limita al “minimo sindacale”, mettendoci poca testa e poco cuore, e utilizzando per lo più risorse interne all’azienda.

Il secondo segmento, corrispondente al 42% del campione, prende il nome di “approccio problematico”. Nonostante la definizione, qui le cose iniziano and andare meglio: c’è più consapevolezza, ma le aziende,  accanto all’individuazione di obiettivi precisi, avvertono come pressanti quelli che vivono come “problemi” per sviluppare le decisioni. Chiaramente, non è stata ancora interiorizzata una chiara visione strategica e, di conseguenza, il ruolo del content marketing viene vissuto ancora come un “fastidio necessario” e non come una risorsa. Di qui l’utilizzo sporadico,e mai a livello strategico, di aziende esterne specializzate in comunicazione.

Il terzo gruppo raccoglie il 45% del campione e viene contraddistinto da un “approccio ottimale” nei confronti del content marketing. Ovvero, consapevolezza del ruolo, obiettivi e strategie ben definiti, affidamento nella quasi totalità dei casi della creazione dei contenuti a risorse esterne e specializzate. Si tratta in principal modo di aziende B2C, già orientate quindi a un dialogo diretto e continuo  con il cliente/consumatore.

E’ indubbio, però, che anche le aziende B2B stanno individuando nella cura dei contenuti e nello sviluppo di uno storytelling aziendale  una delle forme più efficaci per favorire la propria awareness e per promuovere prodotti e servizi, ma è altrettanto vero che questo non accade ancora a livello generale, né in modo omogeneo e corretto.

Un’altra indagine, sviluppata dal portale americano Contently e dedicata proprio a capire quali aziende hanno il content marketing più efficace,  ci dice infatti che le aziende B2B (tranne quelle del settore tecnologico) ottengono ottimi risultati in termini di “tempo di attenzione” ai loro contenuti, ma crollano in termini di “completezza”.

Ovvero: tantissime persone iniziano a guardare un loro filmato, ma pochissime arrivano fino in fondo. Segno inequivocabile che il contenuto parte bene, magari con uno slogan accattivante, ma poi diventa noioso. E questo è chiaramente un segnale negativo per quanto concerne la qualità e la consistenza del contenuto proposto.

Per completezza, ecco cosa dice l’indagine di Contently per quanto concerne l’Average Finish Rate (l’indice appunto di chi completa fino alla fine la lettura/visione del contenuto):

Settore TECHNOLOGY: 37%
Settore FINANZA: 31%
Settore B2B: 13%

Dal nostro punto di vista, da quello cioè di un’azienda che progetta e realizza “communication strategies” per i propri clienti, non possiamo che confermare questo trend. Il potenziale è alto ma non tutti, e soprattutto non tutte le aziende B2B, hanno ancora deciso di investire in tal senso. Inoltre, ci scontriamo spesso tra un confronto/scontro tra “old” e “new” media, cosa che ci lascia sempre più perplessi, anche perché uno non elimina di concetto l’altro, anzi, meglio giocare su più campi, no?

E TU SEI SODDISFATTO DEL TUO CONTENT MARKETING?

PARLIAMONE!